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SEGUENDO L’ARCA DEL PATTO…

 

L’arca era uno degli arredi sacri fatti costruire da Dio a Mosè (Es. 25:10-22). Era una cassa di legno d’acacia rivestita d’oro lunga circa m. 1,20, larga e alta circa m. 0,70. La parte superiore presentava un orlo decorativo fatto d’oro massiccio, così come d’oro massiccio era il coperchio, detto propiziatorio. Quest’ultimo a sua volta era sormontato da due creature angeliche aventi le ali spiegate e il viso rivolto verso il basso. La parte inferiore dell’arca presentava due anelli per lato, attraverso i quali passavano le stanghe tramite le quali l’arca doveva essere trasportata.

Essa simboleggiava la presenza di Dio. Era chiamata l’”arca del patto” perché al suo interno si trovavano le due tavole di pietra contenenti il Decalogo, il fondamento del patto stabilito dal Signore con il suo popolo Israele. Successivamente furono posti dentro (o accanto) l’arca anche un vaso con la manna, la verga di Aaronne che era fiorita e il libro della legge (Es. 16:33,34; 40:20; Num. 17:10; Eb. 9:4). Ma al tempo dei Re questi ultimi oggetti non si trovavano più dentro l’arca (1 Re 8:9).

Dopo l’ingresso nella terra di Canaan l’arca stazionò a Ghilgal (Gios. 4:19), poi fu portata a Silo (Gios. 18:1), a Betel (Giud. 20:26,27), poi di nuovo a Silo (1 Sam. 1:3; 3:3). Fu presa per un breve periodo dai Filistei, poi tornò tra gli Ebrei, a Bet-Semes (1 Sam. 6:12), a Chiriat-Iearim (1 Sam. 7:1,2) e infine, su iniziativa di Davide, a Gerusalemme, dove rimase in un tabernacolo provvisorio, fino alla costruzione del tempio per opera di Salomone.

 

NEL DESERTO

 

L’arca del patto doveva essere posta nella parte più interna del santuario mobile o tabernacolo ordinato da Dio, cioè nel luogo santissimo. Durante le soste nel deserto il tabernacolo doveva stare al centro dell’accampamento e c’erano precise indicazioni che regolavano la disposizione delle dodici tribù nel campo e l’ordine di marcia delle stesse (Num. 2:1,2,17).

Il fatto che la posizione dell’arca fosse centrale rispetto all’accampamento e alla lunga colonna degli Ebrei in marcia simboleggiava naturalmente il fatto che il Signore deve essere messo al centro della nostra vita e delle nostre attività. Il Signore ha promesso che starà in mezzo al suo popolo (Salmo 46:4,5) e Gesù ha detto che il regno di Dio è in mezzo a noi (Luc. 17:20,21). Ma queste realtà si realizzano quando desideriamo e cerchiamo la presenza di Dio tra di noi e in noi.

E’ degno di nota che gli Israeliti dovevano stare ognuno nella propria tribù, sotto la bandiera che la rappresentava. E’ importante che anche oggi ogni credente resti legato alla propria comunità. In questo tempo di globalizzazione, di contatti in tempo reale con ogni parte del mondo, di scambi di comunicazioni ed esperienze, resta indispensabile realizzare e mantenere la comunione con la propria famiglia spirituale (Eb. 10:24,25). La propria comunità deve essere amata, apprezzata, onorata, difesa.

 

NELLA TERRA PROMESSA

 

 In diverse circostanze l’arca precedeva il popolo del Signore (Num. 10:33). Fu così anche quando il popolo passò il Giordano per entrare nella terra di Canaan (Gios. 3:1-6). L’arca alla testa degli Israeliti è simbolo della guida che dobbiamo chiedere al Signore lungo il cammino della nostra vita, specialmente quando ci troviamo a passare per strade non sperimentate prima. In modo particolare il passaggio del Giordano rappresenta i momenti difficili e cruciali del nostro pellegrinaggio e le acque che scendono impetuose a valle e che straripano dappertutto ci parlano di pericoli e difficoltà da affrontare. Se abbiamo con noi l’arca della presenza di Dio e se permettiamo che essa ci guidi resta valida la promessa divina: “Quando dovrai attraversare le acque, io sarò con te; quando attraverserai i fiumi, essi non ti sommergeranno” (Is. 43:2).

Anche in occasione della presa di Gerico l’arca ebbe un ruolo importante e decisivo (Gios. 6:1-7). Non fu un’azione militare che consentì agli Ebrei di conquistare la città, ma l’ubbidienza alle disposizioni divine e la fede nella Parola di Dio (Eb. 11:30). Fu significativo il fatto che dovettero marciare attorno alla città per sette giorni, simbolo della perseveranza della nostra preghiera e del nostro impegno di fede e che durante tutto quel tempo non si dovesse udire affatto la loro voce, ma solo il suono delle trombe (Num. 10:9; 2 Cron. 13:10-18).

 

ILLUSIONE E DELUSIONE

 

Ma l’arca da sola, in quanto oggetto, sia pure sacro, non poteva garantire la vittoria in ogni circostanza. Gli Ebrei lo capirono molti decenni più tardi, al tempo del sacerdote Eli, quando Samuele cominciava il suo ministerio profetico.

In occasione di uno dei tanti conflitti del popolo d’Israele contro i Filistei, gli Ebrei furono sconfitti. Si mostrarono sorpresi dall’esito negativo della battaglia e quasi si lamentarono della mancata assistenza di Dio, piuttosto che riflettere sulle proprie colpe che avevano allontanato da loro il favore di Dio (1 Sam. 4:1-3; Prov. 19:3). Pensarono allora di condurre sul campo di battaglia l’arca del patto, ma questo nuovo scontro si rivelò una disfatta e l’arca fu addirittura presa dai nemici (1 Sam. 4:3-11). L’insegnamento che scaturisce da questo episodio è evidente: non si può pensare di godere del favore divino per il semplice fatto di compiere degli atti di culto o di definirsi membri del popolo di Dio. Alcuni secoli dopo, al tempo del profeta Geremia, gli abitanti di Gerusalemme si sentivano al sicuro perché nella loro città c’era il tempio di Dio, ma la loro si rivelò una falsa sicurezza, Gerusalemme fu conquistata e il tempio fu distrutto (Ger. 7:4). Giovanni Battista mise in guardia farisei e sadducei dal pericolo di sentirsi a posto perché discendenti da Abrahamo (Matt. 3:7-9) e Paolo parla di coloro che hanno solo l’apparenza della pietà, cioè della devozione cristiana, ma non la sostanza (2 Tim. 3:5).

L’arca catturata dai Filistei rimase nel loro paese solo sette mesi (1 Sam. 6:1): vari avvenimenti negativi persuasero questo popolo a rispedire l’arca agli Ebrei. Giunse prima a Bet-Semes e poi a Chiriat-Iearim (1 Sam. 6:13,14; 7:1,2).

 

VERSO GERUSALEMME

 

Qui rimase per alcuni decenni, fino a quando Davide, diventato re d’Israele, non decise di trasportare l’arca a Gerusalemme, che nel frattempo era diventata la capitale del regno. Il trasporto fu organizzato con grande impegno, ma quello che nelle aspettative di tutti doveva essere un giorno solenne e festoso si rivelò un giorno di lutto e di desolazione. Uzza perse la vita, colpito dalla mano di Dio; il trasferimento fu interrotto e l’arca non potè giungere a Gerusalemme, ma si fermò a Gat, a casa di Obed-Edom per tre mesi (2 Sam. 6:1-11; 1 Cron. 13).

L’arca del patto fu sorgente di benedizione per Obed-Edom (2 Sam. 6:12); era stata causa di morte per i Filistei, ma anche per gli abitanti di Bet-Semes, per la loro mancanza di riverenza per l’arredo sacro, così come per Uzza, che aveva toccato quell’oggetto sacro che solo i leviti potevano maneggiare. Nulla è detto circa la permanenza dell’arca a casa di Abinadab. La presenza di Dio può essere fonte di benedizione  o di condanna; può lasciare un segno nella vita dell’uomo o passare oltre senza che l’uomo ne tragga alcun beneficio. Tutto dipende dal nostro atteggiamento, dalla nostra disposizione di cuore, dalla nostra ubbidienza, dalla nostra riverenza (2 Cron. 15:1-7; Matt. 7:7,8; 11:20-30).

Il trasporto dell’arca fu disposto mediante l’utilizzo di un carro. Fu preso un carro nuovo, e questo fatto intendeva onorare il  Signore. Ma proprio a causa di questo mezzo di trasporto l’arca non aveva piena stabilità e questo indusse Uzza a toccare l’arca per sostenerla. Non ci fu il rispetto delle leggi stabilite da Dio che prevedevano che l’arca dovesse essere trasportata sulle spalle per mezzo delle stanghe che essa aveva. Forse chi organizzò il trasferimento volle rifarsi alla maniera in cui i Filistei avevano rimandato l’arca agli Ebrei: è sempre pericoloso “imitare” il mondo, trascurando le leggi di Dio. Predicare il vangelo della prosperità o dell’edonismo, guidare la chiesa con una visione “aziendale” o “imprenditoriale”, curare l’immagine più che la sostanza, ricercare il consenso a tutti i costi, “spettacolarizzare” le riunioni che si tengono, sono alcuni dei pericoli che si corrono quando si cercano mezzi nuovi per veicolare la presenza del Signore e la Parola di Dio.

Il Signore ha stabilito delle leggi per la salvezza dell’uomo, per il battesimo nello Spirito Santo, per l’esercizio del ministerio, e per tutto quel che concerne la manifestazione della sua benedizione verso gli uomini. Pensare di sostituire le leggi divine con la modernità e l’efficienza dei mezzi tecnologici non porterà alcun bene all’uomo, né alla Chiesa.

Il trasferimento dell’arca fu disposto con l’accompagnamento di un grande apparato strumentale. Davide fu un re che ebbe particolare interesse ed attenzione verso la musica, essendo egli stesso suonatore di arpa (1 Sam. 16:14-23; 1 Cron. 25:1,6,7). Ma tutti gli strumenti musicali e tutta l’aria di festa di quella giornata non poterono impedire il dissenso del Signore. Il ruolo che la musica e il canto oggi esercitano nelle attività della chiesa è quanto mai rilevante, ma bisogna guardarsi bene dal pericolo che essa prenda il posto della Parola di Dio, si sostituisca alle sue “leggi”, diventi il polo di attrazione principale delle riunioni e far parte di un gruppo musicale o di un coro diventi l’aspirazione unica dei giovani quando si parla di servizio nella chiesa. La morte di Uzza provocò tristezza e paura in Davide, un uomo che più volte sbagliò, rendendosi colpevole agli occhi di Dio, ma che sempre seppe riconoscere le proprie colpe, mostrò sincero pentimento e invocò la misericordia di Dio. Ci fu una salutare “pausa di riflessione”, prima di prendere nuovamente in considerazione il progetto di trasferire l’arca a Gerusalemme.

In questa seconda occasione si badò a fare le cose secondo le regole stabilite da Dio e il progetto ebbe un felice esito (2 Sam. 6:12-19; 1 Cron. 15:1-13;25-28). Ci fu la benedizione del Signore e ciò produsse grande gioia in tutti i partecipanti.

A turbare la gioia di Davide in questa occasione ci fu la moglie Mical, che seguì dalla finestra le ultime fasi dell’ingresso del corteo a Gerusalemme. Vide il marito saltare di gioia e danzare e fu molto critica con lui, prima nei suoi sentimenti e poi con le sue parole (2 Sam. 6:16-23). E’ sempre facile criticare gli altri quando si sta “alla finestra”, senza far niente e senza essere impegnati nell’opera di Dio. La conseguenza di questo sentimento da parte di Mical fu che rimase sterile e non potè avere figli: chi non fa nulla e sa solo criticare non produrrà mai nulla di buono, rimarrà sterile, senza frutto e senza futuro.

 

DOPO GERUSALEMME

 

Davide avrebbe voluto costruire un tempio al Signore, ma Dio non gli consentì di portare a compimento questo suo proposito, pur mostrando apprezzamento per esso. L’arca quindi fu posta in una tenda provvisoria allestita a tale scopo (2 Sam. 6:17). Salomone, figlio di Davide, edificò il tempio e allora l’arca fu collocata all’interno del luogo santissimo di tale tempio e quivi rimase per quasi quattro secoli, fino alla distruzione di Gerusalemme, nel 586 a.C. In occasione di tale evento l’arca e gli altri arredi sacri sparirono, probabilmente trafugati dagli invasori babilonesi, e non se ne è avuta più traccia.

Il profeta Geremia anticipa il fatto che l’arca sarebbe scomparsa e non sarebbe stata rimpianta (Ger. 3:16,17), perché con l’avvento della grazia e l’effusione dello Spirito Santo i simboli dell’antica dispensazione levitica non avrebbero più avuto ragion d’essere e la presenza di Dio in mezzo al suo popolo non sarebbe più stata simbolica, ma reale.

E’ significativo comunque il fatto che l’apostolo Giovanni, in una delle visioni registrate nel libro dell’Apocalisse, vide ancora l’arca del patto, a testimonianza della continuità dell’opera di Dio a favore del suo popolo e della sua fedeltà nel corso dei secoli (Apoc. 11:19).

 

 

 

Rodolfo Arata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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